Iniziamo dal principio. Che cosa significa sostenibilità? Questa parola deriva dal verbo latino “sustĭnĕo, sustinēre”, ossia sorreggere, aiutare, ma anche nutrire, alimentare, protrarre nel tempo. Ed è proprio qui la chiave del concetto: il tempo. Sostenibilità significa assicurarsi che i bisogni della generazione presente vengano soddisfatti, senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri. Produrre e Preservare.
Oggi vi sveliamo che anche voi, alcuni forse senza nemmeno rendersene conto, mentre vi dilettavate tra una tartare di capriolo e un buon sugo di cinghiale, avete adottato un comportamento sostenibile.
Infatti, il nostro sistema alimentare è purtroppo il primo responsabile del cambiamento climatico, dalla produzione di CO2 al fenomeno del food wasting, e le scelte che facciamo a tavola non solo possono fare, ma fanno la differenza. La carne di selvaggina è una di queste.
Questa materia prima d’eccellenza non solo è salutare, ma è versatile, si presta a svariate preparazioni e combatte “naturalmente” lo spreco alimentare, perché del selvatico si può gustare praticamente tutto. In più, il suo essere più raro del normale, contribuisce a diminuire il consumo di carne annuo di ciascuno.
Ecco alcuni motivi principali del perché la carne di selvaggina è sostenibile:
Assenza di allevamenti intensivi: gli allevamenti intensivi consumano risorse idriche, mangimi e occupano grandi porzioni di terreno, determinando un forte impatto ambientale e contribuendo, in alcune aree geografiche, al fenomeno della deforestazione.
Gli animali selvatici, data la loro vasta distribuzione geografica, il tipo di habitat e l’attitudine nel procacciarsi il cibo, si muovono spostandosi per numerosi chilometri: ciò comporta lo sviluppo, l’ossigenazione e la magrezza dell’apparato muscolare. Le loro carni sono denominate “carni nere” (INRAN, Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione): ciò è dovuto alla ricchezza di ferro, un elemento indispensabile per legare l’ossigeno e quindi essenziale al movimento.
La carne degli animali selvatici possiede doti nutrizionali peculiari che ne fanno un alimento sano, ricco di proteine, aminoacidi essenziali, vitamine e minerali, e soprattutto molto magro e con scarso livello di colesterolo. Il contenuto in grassi della selvaggina si aggira mediamente tra il 2% (0,6-2,6% nei cervidi) e il 5% (3,5-5,2% nei cinghiali), mentre l’apporto calorico si aggira attorno alle 110 e le 120 kilocalorie.
Nella dieta umana, la carne è vista come la maggiore fonte di grassi, specialmente di acidi grassi saturi, che sono implicati in molte malattie tipiche della società occidentale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda che l’introduzione giornaliera di grassi sia inferiore al 30% dell’energia totale assunta e che, di questa, i grassi saturi siano limitati al 10%. A causa dei rischi associati all’assunzione di grassi dalla dieta tramite carne rossa, la tendenza del consumatore si sta indirizzando verso un aumento della richiesta di carni magre.
La selvaggina contiene il 50-80% di grassi in meno delle carni rosse. Carni ottenute da animali selvatici mantenuti in condizioni di allevamento hanno evidenziato che la dieta somministrata aumentava notevolmente il contenuto di grassi e diminuiva il rapporto fra grassi polinsaturi e saturi. Uno studio effettuato su cervi selvatici ha evidenziato che, all’interno della loro carne magra, la composizione dei grassi presentava un elevato livello di acidi grassi polinsaturi, come un alto rapporto tra acidi polinsaturi e saturi e un basso rapporto tra acidi grassi omega-6 e omega-3.
La carne di cinghiale presenta un rapporto omega-6/omega-3 compreso fra 6 e 8, nettamente migliore rispetto al suino. Similmente agli altri mono gastrici, la composizione degli acidi grassi della carne di cinghiale dipende dalla dieta. In natura i cinghiali mangiano una grande varietà di piante indigene, erbe, semi, radici, frutta, insetti, lombrichi, lumache, piccoli mammiferi e carogne. Questo tipo di alimentazione fa sì che nella carne di cinghiale il rapporto tra acidi grassi polinsaturi e saturi sia sopra il minimo (0,4) raccomandato dal Dipartimento Britannico della Salute per diminuire il rischio di malattie coronariche nell’uomo.
Un’elevata concentrazione di vitamina E nelle carni di questi animali contribuisce all’aumento della conservabilità (shelf-life) delle loro carni grazie al suo potere antiossidante, essenziale per la stabilità della carne.
È quindi auspicabile un incremento del consumo di queste carni alternative per la loro ormai evidente salubrità e anche alla luce della loro aumentata disponibilità.